di Franco Mostacci
L’aumento dei prezzi al consumo (l’inflazione), può essere analizzato sotto diversi punti di vista, ma per i lavoratori dipendenti ha interesse soprattutto quando viene posto in relazione al proprio reddito disponibile (lo stipendio ricevuto al netto delle tasse pagate). Se anche questo aumentasse (o si riducesse il carico fiscale) di pari passo con i prezzi, il lavoratore e la sua famiglia potrebbero mantenere lo stesso standard di vita. L’inflazione viene, quindi, osservata e valutata sotto l’aspetto del potere d’acquisto dello stipendio. Ecco, però, emergere una prima contraddizione: i prezzi aumentano quotidianamente ma il salario viene rivisto con una tempistica molto più lenta. I contratti del pubblico impiego (ma non solo), sono rinnovati dopo la loro naturale scadenza. E non si tratta più di fattori occasionali a determinare questi gravi ritardi, ma di una vera e propria “tattica” dilatoria, adottata dai vari Governi per conseguire un risparmio sulla spesa pubblica (ancora non sono state stanziate le risorse per i rinnovi 2008-2009 e nel settore della ricerca pubblica ancora si attende la definizione del contratto 2006-2007). Quindi, i prezzi corrono avanti ed a distanza di qualche anno gli stipendi si adeguano. Con la conseguenza che i soldi che si ricevono al momento del rinnovo del contratto a titolo di arretrati, sono stati erosi dall’inflazione e non è più possibile acquistare ciò che si sarebbe potuto comprare se fossero stati corrisposti a tempo debito. Eppure una volta non era così. Dall’immediato dopoguerra (all’inizio degli anni ’50) e fino ai primi anni ’90, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti venivano adeguate automaticamente sulla base della variazione della cosiddetta indennità di contingenza o scala mobile. Sulla base di un paniere di beni e servizi che assicuravano un dato standard di vita ad una famiglia tipo (padre, madre, due figli della classe operaio-impiegatizia), l’Istat calcolava come variava nel tempo la spesa per l’acquisto dello stesso paniere. Dopo l’approvazione dei dati e la determinazione dello scatto di contingenza da parte di una Commissione nazionale (con rappresentanze sia datoriali che dei lavoratori), a partire dal mese successivo venivano adeguati gli stipendi. Un meccanismo automatico, non certo privo di pecche (anche allora si faceva la “cresta” ai lavoratori mantenendo nel paniere prodotti che non venivano più utilizzati, come l’olio di fegato di merluzzo, o altri il cui prezzo era “calmierato” e non aumentava mai, ma che di fatto erano introvabili, come le sigarette nazionali e la ciriola), ma che tutto sommato ha retto anche durante i 10 anni di iperinflazione dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni ’80. La scala mobile, dapprima bimestrale e poi trimestrale, nel 1986 divenne semestrale, con cadenza 1° maggio e 1° novembre di ogni anno.
Con l’accordo del 3 luglio 1992, durante il governo Amato, il sindacato rinunciò definitivamente, dopo 46 anni, alla scala mobile, per evitare di alimentare la spirale inflazionistica (aumento dei prezzi, aumento degli stipendi, maggiore propensione al consumo, aumento dei prezzi e così via).
Per emettere oggi un giudizio sulla decisione sindacale, che danneggiò senza dubbio alcuno i lavoratori, bisogna, però, tenere presente la situazione del momento. L’inflazione era al 5,4%, la lira sotto pressione tanto che a metà settembre la Banca d’Italia fu costretta ad abbandonarla al suo destino: una svalutazione che causò l’uscita dallo SME (una banda di oscillazione entro la quale potevano muoversi le valute degli Stati della comunità europea). La crisi economica, associata alla crisi della politica (siamo in piena tangentopoli), si tradusse in una manovra finanziaria da 100.000 miliardi (quella per intenderci del prelievo sui conti correnti, dell’aumento dell’età pensionabile, dell’introduzione dell’Ici, del ticket sanitario, della tassa sul medico di famiglia). La lira toccò il suo minimo storico rispetto al marco, quota 940, mentre il dollaro era a 1.300 lire. In questo contesto economico, il 23 luglio 1993, durante il governo Ciampi, venne siglato il protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, che introdusse il famigerato tasso di inflazione programmata (il TIP), quale parametro di riferimento per i rinnovi contrattuali. Sono gli anni in cui bisogna governare la transizione dell’Italia verso l’euro, facendo in modo che alcuni parametri economico-finanziari (tasso di inflazione, rapporto deficit/Pil, rapporto debito pubblico/Pil, tasso di cambio, tasso di interesse a lungo termine) siano ricondotti all’interno dei rigorosi limiti definiti con il Trattato di Maastricht, per evitare il rischio di rimanere fuori dalla moneta unica, con una lira sempre più debole ed in balìa delle speculazioni internazionali. E qui veniamo alla seconda grave contraddizione introdotta nel meccanismo di rinnovo dei contratti di lavoro, che con l’accordo del ’93 fu completamente ridisegnato. Il protocollo di intesa, stabilisce che gli effetti economici del contratto sono legati al tasso di inflazione programmata. L’accordo prevedeva che le parti (governo, datori di lavoro privati, sindacati) si sarebbero impegnate per perseguire “comportamenti, politiche contrattuali e politiche salariali coerenti con il tasso di inflazione programmata”. Cioè, che una volta fissato il TIP, ognuno per la propria parte, ma in primis il Governo, avrebbero dovuto fare qualcosa di concreto. Nei fatti, però, dopo i primi anni, questo benedetto TIP è rimasto completamente svincolato dalla realtà, mostrando il suo vero volto, cioè rivelandosi uno strumento in mano al governo per deprimere gli aumenti contrattuali e ridurre il potere d’acquisto degli stipendi dei lavoratori.Il governo Berlusconi, già nella legislatura 2001-2006 aveva dato prova, per mano del ministro Tremonti, di come fosse possibile utilizzarlo in tal senso. In tutto il periodo, il TIP è risultato mediamente inferiore di 0,7 punti l’anno rispetto all’indice Foi calcolato dall’Istat.
Nel 2008, con il primo DPEF dell’attuale governo Berlusconi, il ministro Tremonti ha dato il meglio di sé, quando a fronte di una inflazione “acquisita” del 3%, ha avuto l’ardire di fissare il tasso di inflazione programmata (TIP) all’1,7%, la metà di quello che ragionevolmente dovrebbe essere il valore che si raggiungerà alla fine dell’anno. La motivazione addotta è insolente. Non si deve recuperare l’inflazione dovuta agli aumenti degli input importati, in quanto “questo impatto rappresenta un impoverimento netto per l’intero paese, non solo per una sua parte”. Una teoria davvero originale (ma che evidentemente ha fatto proseliti nella Confindustria), visto che i fattori produttivi scaricano sul prezzo di vendita i costi dell’importazione e che, quindi, a pagarne le conseguenze sono solo gli acquirenti finali, le famiglie. Le quali, nel caso dei lavoratori dipendenti, quell’inflazione, di cui non hanno alcuna colpa, non possono neanche sperare di recuperarla, se i loro redditi sono adeguati con il TIP. Mentre qualcun altro, in Italia, trova il modo di trarre profitto anche con il prezzo del petrolio alle stelle. Ma la fantasia al ministro dell’economia non manca ed ai giornali fornisce una versione ancora più folcloristica: “chiamate la banca centrale europea – dice – vi spiegano cosa scrivere sull’inflazione, che deve stare sotto il 2% in tutti i Paesi dell’UE”. Purtroppo, signor ministro, non è così. La Bce dice che bisogna perseguire un obiettivo di inflazione che non superi il 2% e quindi chiede di porre in essere misure per il contenimento dell’inflazione. Tutt’altra cosa che scrivere un numero non superiore a 2 e attendere gli eventi senza fare nulla. Un TIP all’1,7% per il 2008 è parso talmente offensivo ed insolente che perfino la Confindustria, per bocca della Marcegaglia, in un impeto di generosità, in quei giorni ha detto: facciamo almeno il 2%.
La realtà è che oggi il meccanismo del tasso di inflazione programmata non ha più senso. Un affermazione, questa, che è condivisa da un autorevole esponente del Governo, che non più tardi di 3 mesi fa ha dichiarato che “gli accordi di luglio potrebbero facilmente essere rivisti in ragione, soprattutto, del venire meno dell’obiettivo disinflazionistico che era stato alla base degli accordi tripartiti” (“Per una proposta di shopping contrattuale”, www.lavoce.info). L’autore? Renato Brunetta. Oggi, l’inflazione ha fondamentalmente due matrici: le tensioni sui prezzi internazionali dei prodotti petroliferi e le speculazioni. In un contesto socio-economico, come quello attuale, in cui le famiglie hanno significativamente ridotto i propri consumi, non solo quelli voluttuari, fino a rivedere gli stili di vita e le abitudini di spesa, il recupero (anche parziale) del potere d’acquisto dello stipendio, insieme al sostegno all’occupazione giovanile, diventano le priorità, per ridare ossigeno e slancio al Paese.
Per ottenere il raggiungimento di questo obiettivo serve un atto di responsabilità del sindacato confederale, che detiene il monopolio della contrattazione (non si capisce perché CGIL-CISl-UIL e da un po’ di tempo perfino la new entry UGL, rappresentino le “parti sociali”, mentre il sindacalismo di base viene escluso in quanto, evidentemente, “parte asociale”). Abbiamo spesso sentito parlare a sproposito sulla necessità di avere un sindacato responsabile. L’unico atto di responsabilità per un sindacato è quello verso i lavoratori e deve essere esercitato chiedendo la reintroduzione di un meccanismo automatico di recupero dell’inflazione. Lascino ad altri, a chi compete, di governare l’economia del Paese ed in primo luogo di impedire gli aumenti dei prezzi.
Se proviamo a rovesciare la spirale prezzi-salari, il risultato può essere diametralmente diverso.
Se un Governo sapesse che all’aumentare dei prezzi corrisponderebbero aumenti dei salari che fanno recuperare ai lavoratori il potere d’acquisto perduto, porrà in essere misure preventive per contenere l’inflazione, innescando una spirale virtuosa.
Ma se un Governo sa che, indipendentemente da come va l’inflazione, potrà decidere di far aumentare poco gli stipendi, avrà un interesse minore a tenere sotto controllo l’inflazione.
D’altronde ci troviamo di fronte ad un Governo che sembra avere idee confuse sulla materia, o forse vuole solo farcelo credere. A parte l’uscita estemporanea di un paio di giorni fa del presidente del consiglio che ha dichiarato, a commento dei dati negativi sul Pil, in maniera tanto semplicistica quanto sconsiderata che “l’Italia è comunque un Paese solido con un alto tenore di vita e di benessere”, lascia quantomeno perplessi il contenuto delle premesse del Dpef 2009-2013: “stiamo mettendo in campo tutti gli strumenti possibili per garantire la tenuta sociale a partire dall’attenuazione, specialmente per la parte più debole della popolazione, dell’impatto del carovita e dei mutui sulla casa”.
Questi strumenti finora non si sono visti e sembra che il Governo sia impegnato in tutt’altre questioni (non è il caso qui di accennare al pericolo incombente di reintroduzione delle gabbie salariali sull’onda del federalismo).
Preoccupa anche, però, che si identifichi la parte più debole della popolazione con le famiglie che si trovano in difficoltà per il pagamento del mutuo. Non ci sono dubbi, che in questo momento possano essere particolarmente esposte da un punto di vista finanziario, ma al Governo sembrano sfuggire i concetti di povertà, indigenza, esclusione sociale. Chi e quanti sono i poveri in Italia? Di cosa hanno bisogno? Sono domande alle quali dovrebbe fornire una risposta adeguata l’Istat. Ma, l’istituto nazionale di statistica, su denuncia del sindacato Usi/RdB, nel 2004, si è trovato costretto ad interrompere la pubblicazione dei dati sulla “povertà assoluta”, perché così come era congegnata la statistica non considerava come tali ben 800.000 poveri, dando una visione distorta del fenomeno. Dal 2004 ad oggi, nonostante l’Istat abbia istituito una pletorica commissione di studio, non è dato sapere quanti poveri ci siano in Italia e come siano distribuiti sul territorio. Ma, soprattutto, si avverte la necessità di definire un paniere di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza, che soddisfino i bisogni primari. Un paniere che – opportunamente aggiornato nel tempo – potrebbe costituire il riferimento rispetto al quale costruire un indice dei prezzi per la rivalutazione automatica di stipendi e pensioni.