I nodi da sciogliere sul reddito di cittadinanza

di Franco Mostacci
(versione aggiornata e integrata dell’articolo Quale povertà per il reddito di cittadinanza pubblicato su LaVoce.Info)

poverta

Reddito, ricchezza, consumi, povertà assoluta e povertà relativa sono concetti che vengono declinati con varie modalità in ambito statistico e tutti concorrono a definire il ‘reddito di cittadinanza’ di prossima introduzione.

Secondo la bozza di decreto legge, il reddito di cittadinanza (RdC) prevede l’erogazione di un contributo massimo mensile di 500 euro, ai quali si aggiungono fino a 280 euro per l’affitto, a integrazione del reddito di ciascun individuo che ha i requisiti per riceverlo[1]. Se si tratta di un nucleo familiare formato da più persone l’ammontare dell’assegno integrativo tiene conto delle economie di scala[2].

L’obiettivo dichiarato è quello di eliminare la povertà assoluta, che nel 2017 – secondo l’Istat – ha raggiunto il livello record di 5,058 milioni di persone (8,4% del totale dei residenti), con una maggiore incidenza tra gli stranieri.

Secondo la definizione statistica, un individuo si trova in condizione di povertà assoluta se l’ammontare della spesa per consumi è insufficiente ad acquistare un paniere di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza, che comprende i prodotti alimentari, l’affitto dell’abitazione, il riscaldamento, l’energia elettrica, i beni durevoli e una componente residuale in cui sono considerate le spese per abitazione, abbigliamento, sanità, istruzione, trasporti, comunicazioni e altri beni residuali.

La soglia di povertà non è uguale per tutti, ma dipende dalla composizione del nucleo familiare, dall’età, dalla regione (Nord, Centro, Mezzogiorno) e tipologia di Comune (Area metropolitana, Comuni con più di 50 mila abitanti; piccoli Comuni) in cui si risiede. A seconda delle caratteristiche, ognuno ha il proprio livello minimo di spesa per consumi, al di sotto del quale è povero.  Non tutti i poveri sono poi uguali, perché è ben differente la condizione di chi non possiede nulla rispetto a quella di coloro che hanno qualche mezzo di sostentamento, seppure insufficiente.

Per un adulto di età compresa tra 18 e 59 anni che vive da solo, la soglia di povertà varia tra un massimo di 827 euro se risiede in una città metropolitana del nord a un minimo di 561 euro se abita in un piccolo centro del sud. Per il primo il reddito di cittadinanza non sarà risolutivo della condizione di povertà, mentre il secondo potrà disporre di quasi il 40% in più del minimo vitale.

Al crescere dell’età le esigenze variano. Un anziano che supera i 75 anni, a parità di luogo di residenza, ha una soglia di povertà di circa il 10% inferiore rispetto a un adulto in età attiva. In molti casi, più che di un’integrazione al reddito, in tarda età è meglio poter disporre di servizi sanitari o socio-assistenziali adeguati[3].

La quota di reddito di cittadinanza destinata all’affitto dell’abitazione (280 euro massimi) è il 36% del totale e, come detto, spetta solo in caso di effettivo pagamento, con la conseguenza positiva che una parte del mercato ‘in nero’ dovrebbe emergere. Secondo i calcoli della povertà assoluta, nel 2005 il canone di locazione di un immobile assorbiva mediamente il 45% del reddito per chi vive da solo (50% nelle aree metropolitane del nord o del centro), ma scendeva al 25% per le famiglie più numerose di 5 componenti. Anche in questo caso una quota fissa può essere insufficiente per alcuni e sovrabbondante per altri.

In sostanza, l’utilizzo di un importo unico[4] di riferimento per l’assegno di cittadinanza, sebbene abbia il pregio della semplicità di applicazione, non sembra rispondere in maniera adeguata alle diverse esigenze delle persone e delle famiglie in condizione di povertà assoluta, creando disparità tra i beneficiari.

Un ruolo decisivo, non solo per l’accesso al beneficio ma anche per calibrare l’importo spettante a ciascun nucleo, potrebbe averlo l’indicatore della situazione economica equivalente.  Sebbene l’Isee vada rivisto relativamente ad alcune situazioni particolari in cui ha mostrato lacune, l’indicatore ha il pregio di considerare non solo le diverse tipologie di reddito ricevuto da ciascun individuo, ma anche la situazione patrimoniale mobiliare e immobiliare, consentendo di escludere dal beneficio del reddito di cittadinanza coloro che dispongono di rendite sufficienti. Deve essere chiaro, però, che se per stabilire il valore di 780 euro mensili (pari a 9.360 annui) si è preso a riferimento l’indicatore ufficiale di povertà relativa dell’Unione europea del 2013 (6/10 del reddito mediano equivalente familiare) non si può considerare lo stesso valore per l’Isee, trattandosi di due cose decisamente diverse, come pure altra cosa ancora è la povertà assoluta. Anche la scala di equivalenza sottostante alle diverse misure è differente: l’Isee, rispetto alla scala Ocse ufficiale, favorisce maggiormente i nuclei familiari in cui sono presenti minorenni, determinando però, qualora fosse adottata, un maggiore esborso.

Molti altri aspetti andrebbero presi in considerazione. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi si evidenzia che il reddito di cittadinanza rappresenta implicitamente un salario minimo, al di sotto del quale nessuno trova conveniente accettare una proposta di lavoro, rischiando di rimanere imprigionato nella ‘trappola della povertà’. E’ bene, quindi, evitare una caduta della domanda in alcune realtà settoriali e territoriali dovuta ad aumenti insostenibili del costo del lavoro, che potrebbero trasformarsi in una vera e propria spirale verso l’alto se, nel tempo, la rivalutazione dell’assegno di cittadinanza dovesse dipendere dalla variazione delle retribuzioni.

Anche sotto il profilo dell’equità fiscale, occorre armonizzare la no tax area per garantire lo stesso trattamento a chi lavora o percepisce una pensione, rispetto a chi riceve l’assegno di cittadinanza. Ciò potrebbe generare un extra costo di rilevante entità conseguente all’introduzione del sostegno al reddito.

Al di là delle modalità pratiche di funzionamento del reddito di cittadinanza, la misura di sostegno al reddit, richiede una attenta riflessione su una serie di aspetti tra loro interconnessi, alcuni dei quali qui evidenziati, che giocheranno un ruolo determinante, a seconda delle scelte effettuate, per definire il costo effettivo e la buona riuscita dell’operazione.

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[1] Tra questi ci sono la residenza continuativa in Italia negli ultimi dieci anni, un valore annuo dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) non superiore a 9.360 euro, un limite sul patrimonio mobiliare e immobiliare, un reddito inferiore ai 6.000 euro o 7.560 per gli individui di almeno 65 anni.
[2] Il RdC va a sostituire il Reddito di inclusione (Rei) che prevede dal 1 gennaio 2018 un sostegno economico (fino a un massimo di circa 485 euro mensili, per le famiglie più numerose) accompagnato da servizi personalizzati per l’inclusione sociale e lavorativa. A sua volta il Rei aveva preso il posto del Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) e dell’Assegno di disoccupazione (Asdi).
[3] Per le persone che hanno almeno 65 anni la Pensione di cittadinanza sale a 630 euro mensili, ma scende a 150 euro mensili l’eventuale contributo aggiuntivo per l’abitazione. L’integrazione incondizionata al trattamento pensionistico minimo Inps per il 2019 è di 513,01 euro.
[4] Unico nel senso che è lo stesso a parità di componenti, ma varia al variare della numerosità del nucleo familiare.