L’Europa che non c’è, tra differenze strutturali e politiche divergenti

di Franco Mostacci
I conti economici europei per settore istituzionale 2015 – (rapporto statistico completo di tavole e grafici)

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In questi anni nulla si è fatto per ridurre l’eterogeneità tra le economie dei Paesi dell’Unione europea.

Le risposte alla Grande recessione sono state in gran parte di natura individuale: ogni Paese si è adoperato per far ripartire la propria economia, senza preoccuparsi di possibili effetti negativi sui partner europei.

Nell’eurozona, a causa delle notevoli differenze strutturali tra i Paesi, la politica monetaria unitaria incide in maniera difforme sulla reattività e competitività dei singoli, tanto da mettere più volte in discussione l’intero impianto della moneta unica.

Ogni Paese europeo, poi, ha una propria politica fiscale, previdenziale, assistenziale e sanitaria, come anche diverse sono le regole del mercato del lavoro. Pur nelle restrizioni previste dal Patto di stabilità e crescita, alcuni Stati hanno reagito alla crisi con una maggiore austerità, altri con una discreta flessibilità, con scelte che spesso hanno risentito del clima politico interno.

Molti degli squilibri che si sono venuti a creare all’interno dell’Unione europea, possono essere evidenziati attraverso i conti economici  per settore istituzionale che Eurostat rende disponibili in un database.

Non è semplice orientarsi nella sequenza dei conti, quasi un milione di numeri che descrivono tre diverse dimensioni: la distribuzione geografica, l’evoluzione temporale e i settori istituzionali (società non finanziarie o imprese; società finanziarie; pubblica amministrazione; famiglie e istituzioni non profit; resto del mondo).

Attraverso i conti istituzionali si possono seguire i flussi economici non finanziari e le transazioni tra settori, partendo dalla produzione dei beni e servizi, passando dalla generazione, distribuzione e redistribuzione del reddito, per giungere all’utilizzo del reddito disponibile (consumi, risparmi e investimenti). Il saldo finale rappresenta l’accreditamento (se positivo) o l’indebitamento (se negativo)  del Paese nei confronti dell’estero e di ciascun singolo settore residente.

Nel 2015, il valore aggiunto a prezzi correnti è aumentato dell’8,5% nell’eurozona e del 12,1% nell’Unione europea  rispetto all’inizio della crisi economica. L’Italia, con un modesto +0,4% è rimasta al palo.

Il conto corrente della Germania nei confronti dell’estero è in positivo dal 2002 ed ha raggiunto i 257 miliardi di euro nel 2015, grazie soprattutto al surplus della bilancia commerciale. Nonostante i cittadini tedeschi abbiano il più elevato potere d’acquisto pro capite, la Germania, oltre ad avere i conti pubblici in ordine, si conferma un Paese con bassi consumi, elevato risparmio e un basso livello di investimenti, sia privati che pubblici.

L’Italia aveva nel 1995 un potere d’acquisto pro capite analogo a quello tedesco, ma da allora – e soprattutto dal 2007 – le differenze si sono ampliate. Nello stesso arco temporale la propensione al risparmio delle famiglie italiane si è dimezzata dal 21% all’11%. Le imprese italiane hanno visto erodere la loro quota di profitto e ciò dipende in gran parte dalla stagnazione della produttività, che è invariata dal 2000, mentre in Germania, Francia e Regno Unito è aumentata del 30% rispetto al 1995.

La Francia, che insieme alla Spagna ha privilegiato l’intervento pubblico rispetto al consolidamento fiscale, è l’unico tra i Paesi dell’eurozona ad accusare un deficit di 43 miliardi di euro, di cui 76 della pubblica amministrazione (le famiglie francesi sono però in attivo). Tuttavia, continua a mantenere un reddito nazionale che supera il Pil dell’1,8%.

Tutto il contrario dell’Irlanda, in cui la concessione di condizioni di favore alle società multinazionali che hanno spostato a Dublino la loro sede fiscale, ha fatto aumentare il Pil , ma ha anche causato una fuoriuscita verso l’estero di 53 miliardi di redditi da capitale.

Anche il Regno Unito, che storicamente ha sempre avuto un reddito nazionale superiore al prodotto interno, dal 2012 versa in una situazione di deflusso dei redditi verso l’estero.

In Grecia, dove le famiglie se la passano tutt’altro che bene con una propensione al risparmio addirittura negativa  (-7% nel 2015), le imprese e le società finanziarie possono vantare tassi di profitto superiori al resto d’Europa.

I livelli di tassazione tra i Paesi restano ampiamente differenti, come pure la composizione del gettito tributario tra imposte indirette (iva, tasse e dazi su importazioni, imposte sui prodotti e sulla produzione), indirette (tasse sul reddito e altre tasse correnti) e in conto capitale.

La pressione fiscale varia tra il 48% della Francia e il 25% dell’Irlanda, anche se il gap si riduce se si considera quanto lo Stato restituisce sotto forma di prestazioni sociali in denaro (pensioni) o in natura (beni o servizi forniti gratuitamente alle famiglie).

Il reddito disponibile pro capite corretto per i trasferimenti sociali in natura e riportato a parità di potere d’acquisto vede ai primi posti il Regno Unito e la Germania , con valori doppi rispetto a Portogallo e Grecia.

I conti istituzionali mostrano le conseguenze di azioni indipendenti e finalizzate esclusivamente al perseguimento di interessi nazionali, a scapito della crescita globale e della stabilità. Se non si abbandonano gli egoismi nazionali, intraprendendo un percorso di convergenza della politica fiscale, gli squilibri macroeconomici non potranno che aumentare nel tempo, mettendo a rischio la tenuta della stessa Unione, già messa a dura prova dalle conseguenze della Brexit.