Lotta alla corruzione, le amministrazioni hanno le armi ma non le usano

di Franco Mostacci
pubblicato sul Fatto Quotidiano del 19 luglio 2017

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Per contrastare la corruzione è importante inquadrare il fenomeno nelle sue reali dimensioni.

Nella Relazione al Parlamento sull’attività svolta nel 2016, l’Autorità anticorruzione (Anac) ha sottolineato la distinzione tra misurazioni soggettive e oggettive del fenomeno. Insomma tra corruzione percepita e corruzione reale.

Nella prima categoria rientra a pieno titolo il Corruption perception index dell’istituto Transparency international, che vede l’Italia al 60° posto su 17 6 Paesi, in Europa facciamo meglio solo di Grecia e Bulgaria, con un punteggio di 46 su una scala che va da 0 (Paese fortemente corrotto) a 100 (assenza di corruzione). Il Cpi e altri indicatori simili sono il frutto di valutazioni qualitative del fenomeno, ottenute attraverso sondaggi, interviste o giudizi di esperti, utili soprattutto per stilare classifiche internazionali e valutare l’evoluzione nel tempo.

Poi ci sono le rilevazioni oggettive, basate su dati o indicatori di tipo quantitativo, che hanno come obiettivo, seppur difficile da conseguire, quello di stimare i costi economici e sociali da sopportare a causa di questa piaga. Nella valutazione degli oneri a carico della collettività vanno considerati non solo i danni economici che derivano dalla violazione del codice penale, ma tutto ciò che impedisce il “buon andamento della pubblica amministrazione”, per rifarsi alla Carta costituzionale.

Le misure di prevenzione e di repressione introdotte in questi anni fanno riferimento infatti a una natura multidimensionale della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, andando ben oltre i classici reati di peculato, concussione o corruzione, perseguiti dall’autorità giudiziaria.

Una prima misura di monitoraggio e contrasto, inserita nell’ordinamento italiano, è stata quella di istituire in ogni ente pubblico la figura del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (Rpct) che, tra gli altri compiti, ha quello di redigere una relazione annuale, rispondendo a un questionario predisposto dall’ Anac.

Mettendo insieme le Relazioni annuali si possono ricavare elementi quantitativi sulle misure di prevenzione messe in atto dalle singole amministrazioni e sulla parte ‘emersa’ della corruzione. Quello che ne emerge è lo scarso utilizzo degli strumenti di contrasto, tale da far apparire i dati come la punta di un iceberg.

A sintetizzare il quadro ci ha pensato l’Osservatorio sulla corruzione nella Pubblica Amministrazione, che nel Rapporto 2016 dal titolo “Corruzione nella PA: a che punto siamo?”, offre uno spaccato territoriale e per tipologia di ente degli strumenti di prevenzione e repressione messi in atto da ciascuna amministrazione.

Tra il 2014 e il 2016 il grado di adempimento rispetto alle misure obbligatorie previste è aumentato, ma molta strada sull’emersione del fenomeno è ancora da fare.

Il 76% delle Amministrazioni dichiara infatti di non aver rilevato alcun evento corruttivo (scende al 64% nel più permeabile Sud), mentre solo il 3% ha riscontrato anomalie nelle procedure concorsuali e il 6% anomalie negli appalti.

Sono per esempio ancora troppo pochi gli enti che hanno predisposto un sistema informativo con garanzia di anonimato per i dipendenti che denunciano una corruzione, illegalità o violazione del codice di comportamento (il cosiddetto whistleblowing, termine che si potrebbe tradurre con soffiata). Secondo i dati dell’Osservatorio, nel complesso ne sono dotati meno di un quarto degli enti pubblici, con le Regioni al primo posto, attrezzate al 40%, mentre nel comparto Scuola nessun ufficio si è finora attrezzato (vedere grafico in alto). La conseguenza è che, in mancanza di una protezione da possibili ripercussioni (per esempio mobbing e licenziamento del dipendente denunciante), su 374 enti pubblici monitorati la media delle segnalazioni nel 2016 è stata di poco più di una per ente, in calo rispetto all’anno precedente.

Il whistleblowing è però uno strumento fondamentale nella lotta alla corruzione. La deputata del Movimento 5 Stelle Francesca Businarolo, che ha curato la prefazione del Rapporto 2016, è stata la prima firmataria di un disegno di legge per rafforzare le misure a tutela del dipendente pubblico che denunci un illecito. Già approvato in prima lettura alla Camera, rischia di rimanere impantanato al Senato per il resto della Legislatura.

Il monitoraggio sulla relazione annuale dei Rpct per il 2016, che ha interessato i due terzi delle amministrazioni pubbliche in termini di dipendenti, ha evidenziato 2.028 violazioni del codice di comportamento (circa 1 ogni mille dipendenti), 1.241 segnalazioni di responsabilità disciplinari o penali nei confronti di dipendenti che hanno preso parte ad eventi corruttivi (0,6 per mille), 2.363 procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti e 935 sanzioni comminate (di cui 212 licenziamenti).

Sono numeri che fanno riflettere, soprattutto se si pensa che rappresentano solo la parte visibile del fenomeno. Senza la corruzione, il deficit e il debito pubblico potrebbero migliorare e la maggiore disponibilità di risorse economiche potrebbe essere impiegata per misure di rilancio degli investimenti e di sostegno al welfare.

E’ importante che le analisi quantitative trovino spazio, anche per dare un segnale che l’attività di prevenzione non è un noioso adempimento formale fine a se stesso, ma la chiave di volta per restituire credibilità all’operato della pubblica amministrazione.