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Liberare il pianeta dalla schiavitù del Pil

di Franco Mostacci
pubblicato sul Foglietto della Ricerca

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Il prodotto interno lordo, misura statistica che condensa in un unico numero il valore della produzione di una economia nazionale, è ormai divenuto una vero e proprio assillo.

L’incremento del Pil rappresenta l’obiettivo primario di ciascun Governo, da realizzare a qualunque costo: il voto sulla pagella che determina la promozione o la bocciatura della politica economica.  Rispetto al Pil sono ancorati due dei cinque criteri di convergenza previsti dal Trattato di Maastricht, cui devono attenersi i paesi dell’euro per garantire la stabilità della moneta unica, sotto la stretta vigilanza della Banca Centrale Europea.

Agenzie interne ed internazionali monitorano in continuazione l’andamento del Pil e delle sue componenti, producendo nuove stime e previsioni per il breve e medio termine.

Una crescita del Pil inferiore a quella di altri Paesi può causare un declassamento da parte delle agenzie di rating con conseguenze nefaste per la finanza pubblica e per le imprese che operano sul mercato interno.

Ma, nonostante tutto ruoti intorno al Pil, questo numero non è un indice credibile del benessere, dello sviluppo sociale o del progresso di una nazione. Come ebbe a dire Robert Kennedy quaranta anni fa il Pil “misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

Va anche oltre Pierangelo Dacrema: “Il Pil è un’ossessione collettiva che ha fatto di esso la bandiera economica e politica…E’ inaccettabile che il Pil sia il metro incontestabile del successo economico di una collettività, e quasi un sintomo della sua felicità… Il Pil non tiene conto non solo della qualità dell’aria, della sanità o dell’istruzione pubblica, del grado di sicurezza o dell’igiene dei centri abitati, ma anche del livello della convivenza civile e dell’educazione civica, dei rapporti sociali e individuali in azienda e in famiglia” (“La dittatura del Pil”; Marsilio Editore).

Ma se da un lato il Pil difetta di contenuti, dall’altro eccede nel considerare crescita economica tutto ciò che produce ricchezza monetaria, anche se superflua o in danno all’ambiente circostante e alle generazioni future. Analogamente al colesterolo, è il caso di distinguere la componente “buona” del Pil da quella “cattiva”, per utilizzare solo la prima come parametro di valutazione della politica economica.

Ad ogni modo, la società globale del XXI secolo avverte la necessità di un cambio radicale di paradigma, che tolga centralità al Pil, come misura statistica di riferimento, in favore di un concetto multidimensionale di benessere, che comprenda i vari aspetti della vita umana.

E’ quanto emerge non solo dalla Dichiarazione di Istanbul del 30 giugno, ma anche dalla conferenza “Beyond GDP”, tenutasi nei giorni scorsi a Bruxelles, sotto l’egida dell’Unione Europea. Anche se al momento non esiste una convergenza su indicatori complementari o alternativi rispetto al Pil pro-capite, si iniziano a porre le basi per la costruzione di statistiche che offrano risposte alle nuove esigenze demografiche, ambientali, di sicurezza in un’ottica di sviluppo sostenibile, distribuzione del reddito   (riduzione della povertà), progresso sociale e culturale, qualità della vita.

Si tratta di una sfida ambiziosa, che si prefigge un obiettivo tutt’altro che banale: liberare il pianeta dalla schiavitù del Pil.