Il dibattito sulla riforma pensionistica (mai sopito negli ultimi anni) ha ripreso vigore in questi giorni, con un primo incontro tra Governo e sindacati, le cui rispettive posizioni sembrano inconciliabili.
Quota 100
Il presidente dell’Inps Tridico ha reso noto in un’audizione parlamentare che nel 2019 i beneficiari di Quota 100 sono stati 150 mila, un numero decisamente inferiore alle attese, di cui 42 mila dipendenti pubblici e una prevalenza di maschi. Il 69% dei richiedenti era in condizione lavorativa, mentre la gran parte degli altri usufruiva di ammortizzatori sociali.
La Quota 100 è una misura temporanea di uscita anticipata dal lavoro (rispetto alle regole previste dalla legge Fornero), introdotta dal Governo M5S-Lega a inizio 2019, che terminerà alla fine del 2021.
Il costo complessivo inizialmente previsto, spalmato tra il 2019 e il 2028 era di 46,4 miliardi di euro, di cui 20 nel triennio 2019-2021.
Considerando che nel 2019 i beneficiari sono stati circa la metà di quelli attesi, si può dimezzare il costo dell’operazione. Restano pur sempre 23 miliardi di euro in più che gravano sulla gestione previdenziale, finanziati in deficit e quindi con un onere trasferito alle generazioni future.
E dopo Quota 100?
In assenza di interventi normativi, dal 1° gennaio 2022 si tornerà ai requisiti precedenti, con il congelamento fino al 2026 degli attuali limiti di anzianità contributiva per l’uscita anticipata (42 anni e 10 mesi per gli uomini, uno in meno per le donne), che non saranno, quindi, adeguati all’aspettativa di vita.
Già si sente parlare di “nuovi esodati”, ovvero coloro che non raggiungendo quota 100 al 31 dicembre 2021 si trovano a dover ritardare l’uscita dal lavoro. Si tratta, però, di una definizione alquanto impropria, considerando che, a differenza di altri provvedimenti adottati in passato, era noto fin da subito che si trattava di una norma a durata limitata, alla quale poteva accedere solo una platea ristretta di lavoratori. Lavoratori privilegiati (rispetto a chi li seguirà), per il fatto che una fetta più o meno consistente della loro pensione è ancora calcolata con il metodo retributivo, basato sugli ultimi 10 anni di stipendio a prescindere dai contributi versati durante la vita lavorativa.
In un’intervista al Corriere della Sera il sottosegretario all’economia Baretta ritiene che vadano “messi in campo interventi sostitutivi all’insegna della massima flessibilità di scelta del lavoratore. Fissato un minimo di età e di contributi, si deve essere liberi di andare in pensione. Questa flessibilità oggi si può introdurre perché ormai stiamo andando rapidamente verso un sistema dove le pensioni vengono liquidate prevalentemente col metodo contributivo, nel senso che tanto hai versato e tanto prendi“.
Sebbene la speranza di vita tenda ad allungarsi, la costrizione a restare al lavoro fino al compimento dei 67 anni e in futuro anche fino a 70-72 è qualcosa di inaccettabile. Al tempo stesso, con l’attuale sistema previdenziale, prorogare Quota 100 o stabilire limiti di età anagrafica o anzianità contributiva più favorevoli rispetto a quelli della legge Fornero avrebbe effetti negativi sulla finanza pubblica e sull’equità intergenerazionale.
La proposta
Eppure una soluzione c’è. Si tratta di mandare in pensione la pensione, come è concepita ora. Escludendo coloro che avevano 18 anni di contributi nel 1995 (ormai in numero residuale) e quelli che svolgono lavori usuranti (per i quali vanno studiate soluzioni mirate anche a carico della fiscalità generale) restano due categorie di lavoratori: quelli già in servizio nel 1995 con meno di 18 anni di contributi, per i quali si applica un sistema di calcolo della pensione misto (retributivo fino al 1995 e contributivo a partire dal 1996) e quelli che hanno iniziato a lavorare a partire dal 1996 (solo contributivo).
Per questi ultimi, come detto, non ha senso fissare età e numero di anni di contribuzione per maturare il diritto a lasciare il mondo del lavoro, in quanto il sistema di calcolo contributivo (meno vantaggioso del retributivo) stabilisce un equilibrio attuariale tra contributi versati e pensione ricevuta.
Prima o poi, si dovrà prendere atto di questa situazione, introducendo solo un limite minimo dell’assegno maturato per garantire la sussistenza. Ma, allora, perché non adeguarsi subito?
Per fare questo è sufficiente che ai lavoratori in regime misto sia divisa in due la data di maturazione della pensione (già oggi il calcolo avviene per somma delle due componenti calcolate separatamente): la parte contributiva viene pagata quando si lascia volontariamente il lavoro e quella retributiva solo al raggiungimento dei requisiti previsti dalla legge Fornero.
Per l’Inps e per i conti pubblici, a parte qualche anticipazione nei flussi di cassa, non ci sarebbe alcun aggravio nel medio-lungo periodo. Anzi, lo Stato potrebbe risparmiare qualcosa sulla componente retributiva, che potrebbe essere destinato alla costituzione di un Fondo per risarcire i giovani lavoratori, la cui pensione sarà inferiore a quella dei loro padri.
Tra le posizioni opposte di Governo e sindacati, la proposta di tagliare con il passato, separando la pensione retributiva (soggetta ai limiti anagrafici e di anzianità lavorativa) da quella contributiva (svincolata), rappresenta la soluzione migliore, in quanto introduce flessibilità e libero arbitrio per il lavoratore senza costi aggiuntivi per il sistema previdenziale.